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Punto di partenza di tutte le strategie di comunicazione aziendali è la scelta del nome della propria attività. Nel web marketing viene usato il termine brand naming per indicare il nome da attribuire al proprio prodotto o servizio e, in genere, al proprio marchio, così ricollegandosi al concetto di identità aziendale.

Cos’è il naming? Essendo il primo passo del processo di creazione del marchio, prima ancora del branding, esso deve trasmettere i valori, le caratteristiche e gli obiettivi aziendali.

Trattandosi del primo punto di contatto col cliente, il nome deve essere incisivo e di impatto, semplice da memorizzare e da ricordare. Si parte dalla ricerca, si procede alla scelta, a cui segue la registrazione.

Occhio ai competitor, per non scegliere nomi già utilizzati o talmente simili che potrebbero ingenerare confusione nei consumatori. Il metodo è semplice: al momento di scegliere il nome a dominio, cioè quello che apparirà nella URL del proprio sito, è possibile verificare se esso è ancora disponibile o meno. In questo caso l’originalità è un punto a favore.

Va considerato anche l’aspetto legale: la legge sul copyright impone che il nome scelto non sia un marchio registrato di altre aziende.

Al termine dell’attività di naming, il nostro business sarà associato a un determinato nome che, salvo strategie di rebranding successive, rimarrà lo stesso per tutta la durata della società.

Non esiste un manuale che suggerisce come come scegliere il nome di un brand, ma possiamo individuare delle linee-guida da seguire. Infatti, il successo di un brand dipende anche da un naming vincente.

Brand name: le regole per trovare il nome giusto

Quale sono le regole base per scegliere il nome dell’azienda? Un naming che funzioni dovrebbe puntare su:

  • Coerenza, veicolando il messaggio corretto, in linea con l’attività svolta.
  • Brevità, perchè più semplice da memorizzare;
  • Riconoscibilità;
  • Originalità, per non rischiare somiglianze con i competitor.

Inoltre, ci sono altri fattori utili da prendere in considerazione nella creazione del brand name:

  • Non essere generico, per poter individuare a colpo d’occhio non solo l’ambito, ma anche il tipo di prodotto trattato. Ma anche non essere troppo specifico, perchè potrebbe costituire un limite se, anche a distanza di anni, si decidesse di modificare il prodotto per renderlo più funzionale alle richieste del mercato o di lanciarne uno nuovo;
  • Essere orecchiabile ed evocare pensieri positivi;
  • Avere la traduzione corrispondente, se si tratta di prodotti/servizi venduti all’estero.

Un segreto per non rischiare che l’attività di naming porti a risultati che non garantiscono successo nel tempo è contestualizzare, pensare al target attuale e alle possibili evoluzioni della nostra strategia, tentando di ipotizzare le sfaccettature che la comunicazione può assumere nel corso del tempo.

 

Naming dell'azienda: le tipologie

Entrando ancor più nel dettaglio, si distinguono varie tipologie di brand name:

  • Nomi descrittivi, che evidenziano le caratteristiche del prodotto e puntano proprio su di esse per suscitare l’attenzione dei clienti;
  • Nomi evocativi, che rimandano al prodotto o servizio venduto attraverso riferimenti meno diretti ma comunque di impatto;
  • Nomi astratti, frutto della fantasia dei marketer dell’azienda, che puntano sulla creatività e su giochi di parole e di suoni (per esempio, mediante onomatopee) e vogliono stimolare l’immaginazione del consumer.
  • Acronimi, molto usati nell’ultimo decennio (si pensi a IBM o BMW), ma meno apprezzati ultimamente perchè impersonali.
  • Nomi del founder e/o dei partner, che traggono beneficio dalle connessioni interpersonali e fanno leva sui rapporti. Hanno un senso e sono efficace finché il gruppo di comando della società continua a far capo al fondatore originario, altrimenti rischiano di essere sostituiti.

Infine, in alcuni casi al brand name può seguire il pay-off. Un esempio classico è dato da Nike con “Just do it”, per la creazione del quale valgono i stessi principi illustrati per la scelta del nome, adattati ai casi concreti. Sono tutti piccoli tasselli che uniti insieme possono garantire la costruzione di un business di successo.

Cosa cambia con l’entrata in vigore del GDPR? Il General Data Protection Regulation (Regolamento UE 2016/679) riguarda la protezione dei dati personali degli utenti.

La nuova policy regola la privacy e impone a tutte le aziende che, nell’ambito della propria attività, raccolgono informazioni personali delle persone e il loro comportamento online, per poi utilizzarle a fini di marketing.

Quali sono i dati sensibili a cui si riferisce il GDPR? Le abitudini, le preferenze, le condizioni di salute e quelle economiche, i rapporti personali.

Uno dei punti cardine del Regolamento riguarda il consenso al trattamento dei dati: esso dev’essere esplicito.

Motivo per cui, tutte le aziende che in precedenza non avevano richiesto il consenso ai propri clienti, anche per essere autorizzati al semplice invio di materiale promozionale, dovranno provvedere in tal senso. Come adeguarsi al GDPR?

Sarà necessario attivare una campagna di e-mail marketing ad hoc, con la quale richiedere ai propri contatti il consenso esplicito per il trattamento delle loro informazioni, oltre ad aggiornare le proprie preferenze sulla privacy, così scegliendo nel dettaglio per quali finalità consentire l’utilizzo dei propri dati sensibili.

Nello specifico, si chiama campagna di repermissioning e rende il tuo database a norma e i relativi dati utilizzabili per finalità di marketing. Altrimenti, per non correre il rischio di andare incontro a sanzioni (20.000.000 € per i privati e le imprese non appartenenti a gruppi di società e fino al 4% del fatturato complessivo per i gruppi societari), essi dovranno essere cancellati perché acquisiti con modalità non conformi a quelle previste dalla legge.

Al contrario, se i nominativi presenti in database avevano già espresso il proprio consenso, non sarà necessario alcun adeguamento.

Un’altra questione riguarda le società che si occupano di Big Data e che utilizzano le informazioni degli utenti fornite da Facebook e Google: esse si avvalgono a tutti gli effetti di dati di terzi. Come orientarsi in questo caso? L’utente deve essere informato del fatto che, dopo aver fornito la propria autorizzazione, i suoi dati possono essere trasmessi a soggetti terzi.

Come impostare le campagne di adv?

Un discorso a parte vale per la profilazione e tutti i comportamenti che gli utenti tengono online, monitorati e utilizzati dalle aziende per effettuare ricerche di mercato e attività di marketing. Siamo nel campo dell’advertising, cioè degli annunci online. Essi violano il GDPR quando si basano su dati personali degli user che non hanno fornito il proprio consenso all’utilizzo.

I rischi di violazioni sono diversi a seconda che venga creata una campagna di Facebook o di Google Adwords. Perchè? Possiamo mettere in evidenza alcune criticità.

1. Conoscere il search intent dell’utente è semplice, poiché si basa sulle ricerche che egli effettua su Google, le cui parole chiave con un volume di ricerca più elevato suggeriscono già elementi utili per strutturare la campagna in linea con i relativi interessi.

Invece, il funzionamento di Facebook Ads richiede maggiori informazioni, alle quali si attinge attraverso una ricerca più invasiva dei dati, a partire dai post pubblicati, passando per i gruppi di cui l’utente fa parte, fino ai singoli like.

Inoltre, per quanto riguarda la creazione di pubblici personalizzati, potrebbero essere colpite dal GDPR le cosiddette “Lookalike Audience”, con cui ci si riferisce al pubblico simile. Questa categoria si basa su un assunto: questo segmento di pubblico potrebbe essere interessato ai servizi/prodotti venduti dalla tua azienda perché presenta caratteristiche simili a coloro che già rientrano tra i tuoi clienti.

In questo caso sarebbe necessario un doppio consenso. Le parti coinvolte sono sia Facebook che l’azienda stessa. Infatti, il colosso mondiale dovrebbe innanzitutto autorizzare la profilazione degli utenti sulla base di altri (ritenuti simili). A loro volta, questi ultimi devono prestare il consenso esplicito per il retargeting attraverso Facebook Ads. Infine, l’azienda deve consentire l’utilizzo del proprio CRM, dal quale vengono importati i contatti.

2. Un’altra questione rischia di porre problemi per la rete di Google e, in particolare, per le campagne di Programmatic. Le opzioni a rischio sono quelle del targeting di Adwords: “segmenti di pubblico di affinità personalizzati,” “segmenti di pubblico in-market”, “segmenti di pubblico simili”, ” targeting demografico “, “monitoraggio cross-device”.

Un cambiamento non di poco conto riguarda le informazioni su razza, etnia, orientamento politico, convinzioni religiose o filosofiche, appartenenza a sindacati, orientamento sessuale. Queste categorie non possono più essere utilizzate per targetizzare il pubblico e indirizzarvi le campagne su Facebook e Instagram.

Altra questione è quella relativa alle inserzioni su Audience Network, con cui è possibile creare campagne visualizzate fuori da Facebook, su siti web e app, ma avvalendosi sempre delle informazioni fornite dagli utenti a Facebook. Finora questa opzione sembra non essere conforme ai principi del GDPR, quindi saranno necessari una serie di adeguamenti.

 

Le altre novità introdotte dal GDPR

Ciò che conta e che è indice del fatto che la tua azienda sia in regola con la nuova normativa del GDPR è che la raccolta dei dati nel database sia avvenuta nel rispetto di tre principi: liceità, trasparenza e correttezza.

La nuova disciplina prevede anche una nuova figura, il cui compito consiste nel gestire la sicurezza dei dati. Si chiama RDP o DPO, acronimo per Data Protection Officer, col quale si intende il Responsabile della Protezione dei Dati Personali. Egli dovrà curare la redazione di un Registro - consultabile da tutti gli interessati - nel quale inserire tutte le operazioni di trattamento effettuate sui dati sensibili.

Il GDPR prevede il diritto di accesso: l’interessato può richiedere copia dei propri dati detenuti dall’azienda, nonché informazioni sul modo in cui essi sono conservati. Inoltre, è stato introdotto il diritto all’oblio, perchè in ogni momento ciascun contatto può chiedere che le proprie informazioni vengano cancellate.

Il Regolamento, che entra in vigore a partire dal 25 maggio 2018, nasce dall’esigenza di garantire maggiore trasparenza. Una volta compiuti con successo i vari adeguamenti da parte di ogni azienda, esso può tradursi in un miglioramento delle strategie di marketing.

Con la Riforma del Terzo Settore, tutti gli enti no profit adegueranno la loro disciplina al D.lgs. 117/2017. I destinatari sono gli ETS, acronimo per Enti del Terzo Settore, nel quale rientrano associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato e ONG attive nel panorama italiano.

Tra le novità, il decreto prevede una regolamentazione più puntuale a vantaggio della trasparenza: per esempio, è obbligatorio pubblicare il bilancio sociale sul sito dell’Ente no profit.

Il concetto di ONG è stato menzionato per la prima volta dalle Nazioni Unite e, a partire da quel momento, abbiamo assistito alla nascita di tantissime organizzazioni non governative, che operano sia in Italia che all’estero.

Il dato caratteristico è il loro essere indipendenti dal governo, senza fini di lucro: le ONG ricevono i mezzi necessari per portare avanti le proprie attività da parte dei privati sotto forma di donazioni.

In base alla legge 49/1987, le ONG italiane vengono considerate ONLUS ed entrano a far parte della relativa lista dopo che il Ministero degli Esteri ne dichiara l’idoneità.

La differenza più rilevante rispetto agli altri gruppi organizzati riguarda gli scopi perseguiti:

  • Difesa dei diritti umani;
  • Miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi meno sviluppati;
  • Tutela dei minori;
  • Cooperazione a livello internazionale;
  • Ricerca sanitaria e scientifica;
  • Organizzazione di missioni umanitarie;

Esse hanno giocato un ruolo fondamentale nel portare davanti alla comunità internazionale tutte le questioni che ruotano attorno al rispetto dei diritti, contro la povertà e le disuguaglianze. Allo stesso tempo le organizzazioni no profit si sono impegnate per colmare i divari esistenti nei Paesi sottosviluppati: hanno dato la possibilità ai bambini del luogo di avere una scuola da frequentare e, alle donne delle comunità, di poter apprendere l’arte di un mestiere.

 

La comunicazione digitale per le Onlus

Go Project, consapevole del valore che le Onlus rivestono per lo sviluppo e la cooperazione, ha lavorato al loro fianco. La nostra agenzia cura la comunicazione di AIL e di Osafund, esponenti di entrambi i settori, ricerca scientifica da un lato e difesa dei diritti umani dall’altro. Tra i progetti realizzati, merita di essere menzionata l’attività di comunicazione digital promossa per Unicef, di cui Roberto Mancini, nostro cliente, è Ambasciatore.

Il Registro del Volontariato italiano conta l’iscrizione di numerose ONLUS il cui lavoro si è distinto nel campo della ricerca scientifica. Tra le prime AIL che, dal 1969 ad oggi, ha creato un network di strutture per prendersi cura dei malati di leucemia, affetti da linfoma e mieloma, e delle relative famiglie. Allo stesso tempo, l’Associazione finanzia la ricerca attraverso la Fondazione Gimema - Gruppo Italiano Malattie Ematologiche nell’Adulto. Dobbiamo ai medici che operano intorno ad AIL alcuni dei progressi compiuti nel campo della medicina ematologica.

Sia AIL che Osafund si rivolgono alle persone, con le quali vogliono condividere i lavori compiuti e la mission alla base. Per raggiungere questo scopo, Go Project ha elaborato una strategia di digital marketing ad hoc, modellata sul settore della raccolta fondi e del 5 per mille, una delle principali forme di finanziamento per i volontari.

Per quanto riguarda AIL, il piano di comunicazione prevede una valorizzazione dei contenuti presenti sul sito e un’ottimizzazione secondo i principi SEO, un’attività di paid advertising con campagne specifiche, una promozione online dei singoli eventi organizzati dall’Associazione. Lo scopo è generare engagement il che, tradotto in termini offline, corrisponde a una maggiore sensibilizzazione degli utenti sui temi trattati.

La strategia di comunicazione sviluppata per Osafund, nata nel 2014, ha preso il via da una fase iniziale. Motivo per cui la relativa programmazione è stata strutturata a partire dalla creazione di un’identità digital più definita, alla quale è stata affiancata da un’attività di content marketing sul sito della Fondazione e sui relativi social. Lo scopo è intercettare e attrarre un nuovo target potenzialmente interessato alle iniziative promosse dai missionari agostiniani nei 54 Paesi del mondo. Condividere i successi raggiunti da chi si impegna ogni giorno è importante e, nel XXI secolo, una condivisione efficace passa dal digital.

Tutte le compagini devono avere l’opportunità di costruire un’identità online, così da migliorare anche la propria reputation offline. Nel decennio della digital transformation, quando ogni struttura associativa dovrebbe essere presente sul web, è ancora più importante garantire una maggiore visibilità a quelle che hanno a cuore le persone, i loro diritti e il miglioramento della qualità della vita. Sulla base di questa consapevolezza, Go Project è sempre aperta ad aggiungere nuove case history tra i progetti di comunicazione gestiti a favore delle Onlus e dei futuri ETS.

Le società muovono i primi passi verso il futuro digitale. Chi non sta al passo rischia di essere soppiantato. Anche le P.A. lavorano per adeguarsi ai progressi della tecnologia.

Tutte le realtà aziendali dovrebbero essere presenti online, tutte le Pubbliche Amministrazioni dovrebbero essere dotate di sistemi informatizzati che snelliscano le procedure e facilitino lo svolgimento delle mansioni lavorative. Dovrebbero, perchè il condizionale è d’obbligo.

Procedere gradualmente alla trasformazione digitale non è solo un’opzione, ma una vera e propria direttiva dell’AgID - Agenzia per l’Italia Digitale, la quale ha pubblicato il Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione (2017-2019).

Tra gli obiettivi strategici del Piano, alcuni dei più importanti possono essere sintetizzati in:

  • Investimenti ICT nel settore pubblico;
  • Migliori servizi per i cittadini e le imprese;
  • Migliori strumenti per i dipendenti della P.A.;
  • Piattaforme digitali da cui accedere a tutti i servizi online (come lo SPID - Sistema Pubblico di Identità Digitale).

Il documento definisce le strategie nazionali che devono fare da punto di riferimento per tutte le P.A. che intraprendono la digital transformation. Infatti, stiamo non solo assistendo ma anche prendendo parte a una rivoluzione che riguarda il rapporto tra cittadino ed ente pubblico. Quanto incide lo sviluppo tecnologico nell’attività amministrativa?

L’esigenza di procedere a un ri-ammodernamento dell’apparato c’è sempre stata, ma è stata avvertita ancor di più quando fu evidente che le procedure burocratiche e amministrative erano troppo complesse e finivano per complicare ulteriormente i problemi, piuttosto che risolverli.

I passaggi amministrativi erano un vero e proprio ostacolo che dilatava ulteriormente i tempi tecnici per l’accesso a un documento, per l’accettazione di una richiesta, per il riconoscimento di un rimborso, e così via.

Complici l’Europa e l’Agenda Digitale Europea (DAE), la soluzione è stata la dematerializzazione delle attività: meno file agli sportelli, meno passaggi per ricevere un’informazione, tutto più automatizzato, tutto online.

Ne ha beneficiato la trasparenza, che è divenuta uno dei principi-chiave a cui dev’essere ispirata l’attività amministrativa. Oggi si parla di open data, indicando la possibilità del cittadino di accedere facilmente a dati e informazioni. In tal modo egli partecipa attivamente ai processi decisionali della P.A. di riferimento. Un cambiamento non da poco.

 

Obiettivo P.A. efficiente  

L’adeguamento della P.A. italiana al processo di digitalizzazione è ancora in corso, ma i risultati  positivi sono già evidenti, primo fra tutti nella burocrazia.

La maggior parte delle imprese del panorama nazionale si sono rese conto dell’importanza della trasformazione digitale e si sono impegnate per adeguarsi e rimanere al passo coi tempi. Per alcune di esse Go Project ne ha curato il processo, intervenendo a supporto della digitalizzazione.

Un esempio è dato da Formez Qualità PA, di cui è stato realizzato il portale web secondo le linee guida fornite dall’AgID, rispettando i principi di usabilità e accessibilità. Tra le soluzioni software per le Pubbliche Amministrazioni, vanno ricordati anche i Progetti per il Dipartimento della Funzione Pubblica, che si avvale di due strumenti di controllo: la piattaforma Magellano, che è stata interamente aggiornata dal team di Go Project, con particolare attenzione per l’aspetto grafico, e la Bussola della Trasparenza, anch’essa rinnovata secondo le linee-guida sulla User Experience.

La creazione di un portale dev’essere accompagnata da un’attività di manutenzione ordinaria: sulla base di questo assunto l’Agenzia di comunicazione si è occupata della gestione di SNA - Scuola Nazionale dell’Amministrazione, per fornire agli utenti un’esperienza di navigazione positiva.

Diritto del lavoro, relazioni industriali, previdenza sociale: sono questi i temi che tratta Lavoro sì, il portale online che ha fornito una risposta concreta e aggiornata ai dubbi sulle novità legislative, sulle discipline contrattuali e sugli orientamenti della giurisprudenza in materia. Esso nasce dall'esigenza di una fonte - affidabile - non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti coloro che, oltre alla conoscenza di leggi e decreti emanati, sono interessati anche alla comprensione della ratio e agli effetti che ne derivano. 

Lavoro, Associazione senza scopo di lucro, vuole costituire un supporto per imprese, datori di lavoro e privati, fornendo informazioni, raccogliendo documenti e spiegando le dinamiche sottese all'evoluzione del diritto, in particolare di quello del lavoro, un settore attraversato da profonde innovazioni.

Le cause di questa graduale ma costante modifica, complice l’epoca di cambiamenti legislativi in cui si trova l’Italia, vanno individuate innanzitutto nel sistema delle fonti che caratterizza il nostro ordinamento, nel quale possiamo distinguere tra fonti legislative e regolamentari, alle quali si aggiungono anche quelle contrattuali-collettive, cioè frutto del lavoro e dell’attività di mediazione tra le parti contraenti, tra lavoratori e datori di lavoro e, non ultimi, i sindacati, le confederazioni e tutte le organizzazioni a essi assimilabili.

Accanto agli organi deputati all'emanazione di norme di legge, nel panorama legislativo italiano sono presenti numerosi soggetti istituzionali, come i diversi Ministeri, le Regioni e le Province Autonome, gli Istituti Previdenziali, che dal canto loro elaborano orientamenti, destinati ad incidere anche a livello operativo.

L’agenzia di comunicazione Go Project si è occupata dello sviluppo dell’intera piattaforma e ne ha curato anche l’aspetto grafico, elaborando un’immagine coordinata con il logo dell’Associazione. La piattaforma scelta come CMS (Content Management System) per il popolamento del sito con i contenuti è Typo3, ottimizzato per l’organizzazione capillare e la categorizzazione dei temi trattati.

La creazione del portale è stata possibile anche grazie a Fieldfisher, noto studio associato formato da professionisti che, con la loro esperienza e le loro competenze giuslavoristiche, collaborano alla redazione dei contenuti. Tutto ciò si traduce in un valore aggiunto per il portale.

 

Normative a portata di utente. Come funziona Lavoro sì?

Data la proliferazione di leggi, non sempre di chiara interpretazione, oggi regolare i rapporti di lavoro non è sempre semplice e immediato. Il mondo del diritto è in continua evoluzione, in modo tale da seguire l’andamento del mercato, degli scambi e delle relazioni tra i soggetti che ne fanno parte.

Si tratta di un aspetto del vivere quotidiano che interessa tutti e, proprio in quest’ottica di massima fruibilità da parte di tutti gli utenti, il portale di Lavoro sì è stato strutturato in modo tale da essere quanto più intuitivo possibile durante la navigazione. A tal fine, le pubblicazioni online sono distinte in base ad argomenti, contenuti correlati e tematiche in primo piano.

Nella Homepage del sito gli argomenti trattati sono organizzati in ordine cronologico, a partire dal più recente, per favorirne l’individuazione nel tempo. Nel caso in cui, invece, l’utente sia interessato a un argomento specifico, sarà facilmente possibile reperirlo accedendo ai newsfeed con i vari tag.

Inoltre, per rendere il sistema ancor più facile e di immediata consultazione, è presente un’area di ricerca avanzata, con un apposito motore di ricerca. Infine, si tratta di un sito web responsive, ciò vuol dire che è possibile consultarlo non solo dal pc, ma anche da altri dispositivi mobili, come smartphone o tablet.

Con un focus sui singoli argomenti, Lavoro sì raccoglie informazioni utili sulle seguenti tematiche tecnico-giuridiche:

  • Rapporti di lavoro; Relazioni sindacali e contratti collettivi;
  • Servizi per il lavoro e politiche attive;
  • Processo del lavoro;
  • Prestazioni previdenziali e contribuzione; Assistenza integrativa;
  • Vigilanza e accertamenti ispettivi;
  • Amministrazioni del lavoro;
  • Associazioni;
  • Lavori parlamentari.

Inoltre, in ogni categoria sono presenti le sotto-voci: Tesi, Approfondimenti, Report Statistici, Giurisprudenza, Contrattazione collettiva.

Perché il mondo del diritto non è costituito soltanto dalle leggi che si susseguono nel tempo, ma permea la vita quotidiana di ognuno; dunque, essere informati e comprenderne i vari aspetti, con le relative implicazioni pratiche, rappresenta un dovere che aiuta nella gestione - nelle varie forme, da quella contrattuale a quella amministrativa - del welfare.

Il branding consta di una serie di elementi che, uniti insieme, trasmettono la vision dell’azienda. Dal logo inteso nel suo aspetto materiale, fatto di colori e font, al pay-off, che esprime un messaggio specifico, ai valori aziendali veri e propri.

Dopo l’immissione sul mercato, il prodotto/servizio circolerà e i consumatori lo ricollegheranno automaticamente al brand e all’azienda a cui esso appartiene.

Ma nel suo evolversi il mercato è imprevedibile e talvolta ciò che in passato riscuoteva successo e creava largo seguito può finire nel dimenticatoio.

Le cause sono varie, ma è più importante per noi soffermarci sulle soluzioni per riportare alto il tasso di engagement e incrementare le vendite.

In questa fase trova spazio a pieno titolo il rebranding, al quale un’azienda può ricorrere nel caso in cui appaia utile cambiare l’immagine e il modo in cui essa è percepita all’esterno, nel mondo dei consumatori.

Il rebranding è la strategia che conduce al rinnovo dell’identità visiva. I potenziali acquirenti devono re-immedesimarsi e cogliere i valori espressi, dal momento che il logo non comunica soltanto l’azienda di appartenenza, ma suscita anche emozioni e crea un senso di appartenenza. Si tratta di un procedimento complesso, i cui passaggi vanno stabiliti caso per caso e a cui procedere solo se appare necessario.

 

Casi di rebranding di successo

Talvolta le strategie di rebranding delle aziende si sono rivelate azzeccate; altre volte sono state parecchio rischiose. Seguiamo l’evoluzione di 5 famose realtà aziendali che hanno fatto i conti con il rebranding e ne hanno tratto vantaggio.

  • Nissan

Da Datsun a Nissan. La storia del celebre marchio automobilistico conta anche un rebranding, che ha interessato tanto il naming quanto l’aspetto grafico, coi colori che rimandano sempre a quelli della bandiera giapponese.

  • Airbnb 

L’ultima versione risale al 2014, anno in cui è stato realizzato il logo definitivo, reso più snello rispetto ai precedenti. La strategia di rebranding doveva rimandare ai concetti di comfort e relax - come spiega Airbnb stessa nel video - e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto. Semplicità e riconoscibilità sono state le linee-guida del processo, terminato con l’ideazione del Bélo, nome che l’azienda ha dato al proprio logo.

  • FedEx

Prima di abbreviare nel 1994 il proprio nome era Federal Express, azienda attiva a livello internazionale nelle spedizioni. L’attività rientra tra quelle più di successo, dato che il nuovo design più minimalista è stato apprezzato da utenti del web e clienti di FedEx.

  • Enel

Lo scopo era cambiare identità visiva, per adeguarsi a un mondo dove tutto è in continua evoluzione e movimento. Infatti, è stato proprio il movimento che ha guidato l’attività di rebranding portata avanti da Enel, che nel 2016 ha cambiato look. Stavolta si è puntato sulla flessibilità e non a caso è stato scelto il “cursore” come elemento-chiave del nuovo logo. Il tutto è stato accompagnato da una parallela strategia digitale dove, anche grazie alla tecnica dello storytelling, l’utente si trova sempre al centro. Perché ogni nuova identità digital, una volta creata, va comunicata.

  • Apple

 Chi non ricorda il vecchio logo ipercolorato? La mela, simbolo della Apple, è tutt’ora presente; mentre i colori del 1977 hanno lasciato il posto a un grigio chiaro e, nel 2015, al nero, ancora più minimal e moderno. Il motivo del cambio colore è stato il tentativo - ben riusciuto - di dare all’azienda un look più “fresco” e sofisticato al tempo stesso.

Go Project ha da sempre mostrato una particolare predilezione per le iniziative che hanno come fine ultimo quello di potenziare il sistema produttivo territoriale e la competitività sul mercato.

Collaborazione, condivisione di competenze e diffusione di conoscenze. Sono questi gli obiettivi finali perseguiti dalla piattaforma sviluppata da Go Project per il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Elettronica e Telecomunicazioni (DIET) dell’Università La Sapienza di Roma.

Con il Progetto DIET+ Go Project ha voluto dare un’ulteriore spinta a filiere produttive dove l’innovazione la fa da padrone:

  • Aerospazio;
  • Agrifood e Made in Italy;
  • Beni e Attività Culturali, Turismo, Industria della creatività;
  • Efficienza energetica e Smart Grid;
  • Industria 4.0;
  • ICT e Multimedialità;
  • Logistica, trasporti e mobilità sostenibile;
  • Tecnologie per l'ambiente di vita, per la salute e l'invecchiamento della società;
  • Tecnologie per l'ambiente e la sicurezza;
  • Tecnologie per le Smart Cities.

Il team di Go Project ha lavorato allo sviluppo della piattaforma, sia dell’infrastruttura che del sistema gestionale, compresa la creazione di una dashboard del back-end che permette di monitorare gli accessi degli utenti e le informazioni da loro fornite. Al tempo stesso, è stato elaborato un progetto di comunicazione per promuovere DIET+, composto da campagne digitali su vari canali.  

Come funziona DIET+? Si tratta di un social network verticale che mette in contatto aziende (PMI), ricercatori, studenti e utenti in genere. Produttori, da un lato, e fruitori di conoscenza, dall’altro, per formare una rete che si alimenta da sé. In che senso?

L’ambito di riferimento è l’ICT, acronimo inglese che sta per Information and Communications Technologysettore che ha tutte le carte in regola per lo sviluppo di una rete di ricerca e innovazione. Tant'è che alcune associazioni di imprenditori, come Unindustria, Federlazio e CNA, hanno già mostrato il loro interesse nel far parte di questo sistema integrato.

DIET+ ambisce a divenire il social network della conoscenza qualificata, dove lo scambio di idee e il networking permettono di fare innovazione e di favorire i progetti di R&S. Le applicazioni sono varie e mettono in correlazione diversi settori.

Da un lato gli studenti che sviluppano all’interno dei Laboratori di Ricerca dell’Università La Sapienza e mettono in rete il know-how prodotto; dall’altro le imprese e gli enti che valutano i risultati in termini di fattibilità e convenienza e, se li ritengono in linea con le esigenze aziendali, rendono esecutivi i progetti. In una parola, fanno innovazione tecnologica.

Parliamo di integrazione perché l’intenzione di DIET+ è proprio quella di facilitare una sinergia tra aziende, ricercatori, università, professionisti, associazioni di categoria ed enti di ricerca, ognuno dei quali avrà un profilo personale da cui creare post e contenuti, darvi visilibità, valutare quelli altrui, promuovere eventi e interagire.

Quante volte un progetto non è andato in porto perché, dopo la fase di ideazione e sperimentazione, mancava la materia prima con cui sviluppare ulteriormente il prototipo e immetterlo sul mercato? La nuova piattaforma sviluppata da Go Project vuole proprio ovviare a queste difficoltà operative e concretizzare le possibilità di innovazione.

Il funzionamento è semplice: i Laboratori di ricerca sono distinti in settori produttivi, che possiamo paragonare al format del gruppo su Facebook, mentre le aree di competenza sono facilmente raggruppabili mediante hashtag, che aiutano anche a richiamare i contenuti, i quali - a loro volta - saranno inseriti all’interno di “cerchie di interesse”. Così facendo, sarà possibile trovare ciò che si cerca in poco tempo.

Ogni prodotto fa capo a un brand, che nel suo significato letterale è sia la denominazione commerciale che il simbolo dell’azienda, il logo che ne trasmette i valori. Il concetto può essere approfondito da vari punti di vista, più o meno tecnici.

Spaziando nel campo del Digital Marketing, si parla di Brand ogni qual volta si vuole fare riferimento all’ideologia su cui si basa l’azienda, tramite la quale essa si distingue dalle altre. Esso è il marchio che veicola il messaggio aziendale. Il brand e la sua notorietà è il punto a partire dal quale far leva per generare quel legame che porta alla fidelizzazione del cliente.

La lista sui significati - materiali o meno - del brand potrebbe continuare, ma non dimentichiamo anche l’importanza che riveste in una strategia di comunicazione aziendale.

Il suo ruolo di spessore è confermato dal fatto che in genere tutte le realtà costruiscono (o dovrebbero costruire) una propria Brand Identity, che talvolta le stesse grandi aziende procedono a strategie di Rebranding oppure che personalità che già godono di notorietà curano l’aspetto del Personal Branding.

Se si pensa a marche come Nike o Mac, il semplice nome (il cosiddetto naming) evoca l’immagine a esso collegato (la brand image) e comporta una reazione immediata, che ben può essere vista come una “risposta emozionale” del cliente.

Quando alla vista di un determinato brand scatta l’emozione, la deduzione è una: l’azienda ha una solida Brand Identity. Ciò vuol dire che la strategia di marketing adottata ha portato i suoi frutti, perché ha instaurato una relazione col consumatore.

Una volta chiari questi concetti del marketing, passiamo all’aspetto più operativo e vediamo come fare attività di branding, cioè come elaborare una valida strategia di marca e di posizionamento del brand.

Primo step è fissare l’obiettivo, cioè capire qual è la vision che vogliamo comunicare al nostro pubblico, dal quale poi estrapolare - in un secondo momento - le buyer personas che vogliamo intercettare.

Tutto ciò è sicuramente frutto di un brainstorming, durante il quale è importante tenere bene a mente che l’attività di Brand Marketing deve (e non può):

  • Distinguerti dai competitor. Quali sono le differenze e i valori aggiunti del tuo brand?
  • Essere incisiva, perché il concetto va comunicato in modo diretto, facile da comprendere e altrettanto facile da ricordare.
  • Mostrare coerenza, poichè l’insieme delle caratteristiche che riconducono al brand devono far parte di una visione d’insieme, in cui ogni elemento (logo, pay-off, colori, ecc..) è allineato all’altro.
  • Evocare fiducia e sicurezza, fondamentali per la fidelizzazione successiva.
  • Soddisfare le esigenze della tua audience, dal momento che quello che la tua azienda vende costituisce la risposta a un loro bisogno.
  • Scegliere i canali migliori. In questo caso le piattaforme più adatte e i contenuti più interessati dipendono sia dal prodotto oggetto della strategia di branding, sia dal target da intercettare.

Viviamo in un’epoca in cui la condivisione dei dati personali è all’ordine del giorno. Social network, App, piattaforme online, tutto quello che facciamo è registrato e immagazzinato. Immaginiamo un’enorme Cloud che permette l'archiviazione, l'elaborazione e la trasmissione di dati.

Il rispetto della privacy è un tema delicato, che ha suscitato e tutt’ora suscita non pochi dibattiti, tra coloro che vantano i lati positivi di un sistema in cui tutto e tutti sono collegati e coloro che, invece, lamentano una violazione della propria sfera personale e un’ingerenza di imprese, P.A., enti e soggetti pubblici in genere. Due facce di una stessa medaglia.

 

Il GDPR tutela la privacy degli utenti

È stata avvertita in modo stringente l’esigenza di aumentare il livello di protezione dei dati personali. Questo clima, reso ancor più teso dallo scandalo Cambridge Analytica, ha condotto all’emanazione del GDPR, che verrà applicato in tutti gli Stati dell'Unione Europea dal 25 maggio 2018.

Cos’è il GDPR? L’acronimo sta per General Data Protection Regulation, il nuovo Regolamento dell’Unione Europea (n. 679/2016) sulla protezione dei dati personali e sulla loro libera circolazione. La normativa sarà applicata sia alle persone fisiche che giuridiche, nonché alle imprese che non fanno parte dell’Ue ma che vendono prodotti e/o servizi negli Stati membri.  

All’insegna di una maggiore trasparenza, con il Regolamento UE 679 del 2016 cambia la regolamentazione dei rapporti tra cittadino e P.A., che dovrà adeguarsi - insieme a tutti gli altri soggetti a cui la normativa si rivolge. In caso contrario sono previste sanzioni più o meno elevate in base al fatturato della società.

Al tempo stesso, vengono riconosciuti una serie di diritti in capo al cittadino:

  • Il diritto alla portabilità dei dati, cioè di riceverli e trasmetterli ad altri;
  • il diritto all’oblio, cioè che i propri dati vengano cancellati;
  • il diritto di essere informato in modo trasparente e dinamico sul trattamento dei propri dati;
  • Il diritto di accesso, cioè di controllarne l’utilizzo;
  • Il diritto di essere informato (mediante notificazione) del data breach, cioè di eventuali violazioni.

 

Come si adegua Facebook al GDPR

Il GDPR ha delle conseguenze anche nell’universo social. Cosa cambia nel modo di utilizzare Facebook e gli altri social network?

A tutti gli utenti iscritti a Facebook è apparso l’avviso “Controlla le tue impostazioni ed effettua delle scelte entro il 25 maggio per poter continuare a usare il tuo account”.  Così il famoso social network, per adeguarsi al GDPR, ha invitato gli utenti a rivedere le regole sulla privacy del proprio account.

Le prossime modifiche sulla piattaforma di Zuckerberg - e non solo - riguardano:

  • Il consenso. Per esempio, per continuare a utilizzare determinate feature, come il riconoscimento facciale nel tagging delle foto, è necessario scegliere l’apposita opzione oppure cliccare sulla relativa spunta per disabilitarla. Niente è più automatico e scontato, ma richiede un’autorizzazione dell’utente.
  • L’advertising. Cambia la visualizzazione degli annunci pubblicitari, che possono essere parametrati in base agli interessi dell’utente o meno, a seconda dell’autorizzazione che egli fornisce. Inoltre, il singolo annuncio non può più essere targettizzato in base a orientamento sessuale, religioso o politico degli user.
  • La tutela dei minorenni. È necessario il consenso del genitore per i ragazzi minori di 16 anni che vogliono iscriversi a Facebook o Whatsapp. In mancanza, il minore che effettua la registrazione sul portale di Facebook avrà comunque accesso al sistema, ma con funzionalità limitate.
  • Il diritto alla portabilità. È possibile selezionare l’opzione “Scarica i tuoi dati” su Facebook e su Instagram per avviare il download sul proprio dispositivo e così recuperare facilmente i propri dati personali, per poi reinserire foto e informazioni su un altro apparecchio e su un altro social network a propria scelta. In tal modo viene favorita anche la libera concorrenza.
  • Il principio di accountability. Esso attribuisce al gestore dei propri dati la responsabilità non solo del modo in cui essi sono gestiti, ma anche nell’ipotesi in cui essi vengano sottratti da terzi. Imprese ed enti pubblici devono comportarsi in modo tale da garantire la massima protezione e salvaguardia dei dati personali di cui sono in possesso.

Maggiori doveri e maggiori responsabilità, che vengono delineate in modo più preciso e puntuale. Lo scopo è tutelare l’utente che immette in rete informazioni personali, talvolta anche in modo poco consapevole. Esse, in mancanza degli opportuni accorgimenti, rischiano di divenire di dominio pubblico, alla mercè di aziende e organizzazioni a scopo di lucro.

Un network dove l’informazione circola liberamente è possibile, basta maggiore precisione e rispetto per tutelare la privacy, rimanendo sempre al passo con l’evoluzione tecnologica che, con le dovute cautele, semplifica e migliora la vita di tutti.

Si sente tanto parlare di storytelling e tecniche della narrazione. Entriamo nel vivo e capiamo di cosa si tratta e perché è considerato un ottimo metodo per “fare comunicazione”, dopo aver raggiunto buoni livelli nella Brand Awareness. La fatidica domanda di partenza è cos’è lo storytelling?

Il termine rimanda al mondo della narrativa e all’arte del narrare. Esso ha subito un’evoluzione che ne ha reso pertinente l’utilizzo anche nel mondo del marketing. Facciamo un passo indietro.

Quando l’azienda lancia sul mercato un nuovo prodotto, per raggiungere gli acquirenti esso verrà presentato e ne saranno posti in evidenza i punti di forza. Questa è la strada universalmente seguita da chi si occupa di Digital Marketing e Advertising. In questa fase della strategia di comunicazione si inserisce lo storytelling, che costituisce una tecnica di presentazione alternativa (i più parlano di unconventional marketing) che fa leva anche sull’aspetto emotivo. Come funziona il meccanismo?

Ancora una volta è il target a orientarci. Ciò vuol dire che il modo di comunicare e le emozioni da suscitare dipendono sempre dal tipo di audience verso cui ci indirizziamo.

In secondo luogo, vale la tecnica - propria del giornalismo - delle 5 W. What, who, why, when e where sono i quesiti che devono fare da filo conduttore al nostro racconto e che vanno sviluppati in una prospettiva SEO-oriented.

È la storia, infatti, l’arma aziendale per suscitare l’interesse, condividerne i valori, coinvolgere e convertire. È attraverso la storia che è possibile trasmettere una percezione positiva del prodotto/servizio. Per questo motivo va riconosciuto il potere dello storytelling, come ottimo alleato in una strategia di comunicazione aziendale vincente.

A livello pratico, tradizionalmente lo schema narrativo si compone di 5 fasi:

  • L’inizio;
  • Il contesto;
  • L’apparizione del protagonista;
  • Il finale;
  • La morale.

Per quanto riguarda quest’ultima, nel Digital Marketing a volte si preferisce lasciare la morale non perfettamente delineata, in modo tale da permettere al consumatore, una volta immedesimatosi nella storia e nel personaggio, di interpretare il messaggio finale in base alla sua prospettiva personale.

La storia deve mettere in risalto due aspetti:

  • Lato razionale;
  • Lato emotivo.

Come rendere la lo schema narrativo interessante e lo storytelling efficace? Tutto risiede nei dettagli. Che si voglia parlare di un prodotto specifico, del brand in generale, di un’azienda o di un soggetto, il segreto è strutturare la trama in modo tale che, all’interno delle 5 W, vengano posti in risalto degli elementi che facciano da collante e suscitino l’interesse del consumatore finale.

Ogni azienda ha degli obiettivi strategici, ma ciò che fa la differenza è sempre il modo con cui essi sono perseguiti. Quanto più autentico risulterà il contenuto, tanto più coinvolgente sarà il messaggio. Infatti, credibilità, veridicità e trasparenza sono le linee-guida del racconto; tant’è che gli esperti del settore parlano di verosimiglianza della narrazione; mentre informare, emozionare e creare engagement sono gli scopi finali.

Allora, guardando allo storytelling come approccio strategico, la “storia” del marchio delinea l’identità dell’azienda e può diventare la storia dell’audience. Così viene instaurato un legame, che renderà più semplice - in un secondo momento - creare un coinvolgimento emotivo.

Una volta strutturata la narrazione, l’utente che ne segue lo sviluppo dovrebbe percepire familiarità e un senso di relatability che lo spingono a identificarsi col protagonista e, implicitamente, condividere i valori e la vision dell’azienda.

Qual è uno dei punti di forza dello storytelling? Vanno considerati i risultati a lungo termine, perché il rapporto di fiducia tra brand e consumatore si basa sul concetto di riconoscibilità ed è duraturo nel tempo.

L’Influencer Marketing, strumento pubblicitario conosciuto in passato sotto altre forme, è divenuto oggi una delle principali strategie di marketing adottate dalle aziende. Potremmo paragonarlo al concetto di testimonial, già esistente dagli anni ‘90, oppure agli sconti riservati ai taxisti per l’acquisto di auto negli anni ‘70.

Nelle strategie di marketing uno degli obiettivi è aumentare l’engagement rate, cioè il tasso di coinvolgimento degli utenti, che si mostrano più o meno interessati a ciò che gli viene offerto. È lo step che precede l’interazione sui social network, a cui punta ogni azienda perché è sinonimo di autorevolezza in rete (detta Online Reputation).

L’Influencer Marketing si basa proprio sul grado di affidabilità che un individuo possiede e ne fa uno strumento per influenzare le decisioni d’acquisto. Esso si fonda sul potere delle opinioni, più autentiche e trasparenti possibili. È la conferma del fatto che l’utente, inteso come consumatore, riveste un ruolo centrale e, attorno a esso, ogni dettaglio viene modellato.

 

I soggetti

Chi sono gli influencer? Lontano dagli stereotipi, le campagne di influencer marketing non sono soltanto quelle promosse da personaggi famosi. Ottimi candidati e volti adatti sono anche opinion leader di settore, blogger, youtubers o clienti fedeli che acquistano il prodotto e possono recensirlo online, condividendo il proprio parere sui social.

A seconda del settore e del mercato dove vogliamo inserirci, cambia la tipologia di influencer idoneo. Se l’azienda abbraccia i temi dell’ecosostenibilità e vuole pubblicizzare un evento, potrebbe scegliere un attivista/ambientalista. Se lo scopo è aumentare le vendite di un determinato prodotto di nicchia, allora sarà meglio optare per un esperto del settore.

In termini tecnici, si parla di profilazione, cioè quell’attività che sulla base dei dati personali degli utenti (età, località geografica, interessi, ecc..) aiuta a individuare il pubblico a cui ci rivolgiamo e, di conseguenza, l’ambassador migliore.

 

I mezzi 

Posto che l’influencer marketing si sviluppa nel tentativo di intercettare l’audience, i metodi per raggiungerlo possono essere diversi, in base a soggetti e oggetto del mercato in questione.

Uno degli strumenti che ha sempre mostrato di essere efficace è la tecnica dello storytelling, cioè del racconto di sé stessi e delle proprie esperienze (culinarie, di viaggio, di acquisto, ecc..). In questo modo si accorciano le distanze tra influencer e follower, che partecipa attivamente.

Come funziona? Condividere la propria quotidianità dona autenticità alle storie, sviluppa una certa reputation e, alla fine, crea un rapporto di fiducia col potenziale acquirente. Sulla base di questo senso affidamento, l’influencer diventa fonte di ispirazione.

Viene di nuovo in considerazione l’engagement, perché l’utente individua nelle abitudini di vita e nelle preferenze dell’influencer una serie punti di contatto che lo spingono a seguirne i consigli e a dare credito ai pareri.

Il potere dell’Influencer Marketing funziona anche dopo, quando l’effetto virale del contenuto è diminuito, perché sfrutta il cosiddetto WOM (Word of Mouth), cioè il Passaparola tra utenti e consumatori.

 

Gli scopi

Cosa garantisce una campagna ben strutturata di Influencer Marketing?

  • Visibilità online e popolarità offline;
  • Brand Awareness e Brand Reputation;
  • Aumento del traffico nel sito;
  • Possibilità di fare Lead Generation;
  • Aumento delle conversioni;
  • Incremento delle vendite;
  • Creazione di una vera e propria community fedele al brand.

Il calcio è lo sport più popolare del mondo, con 3 miliardi e mezzo di seguaci, tifosi e appassionati. In Italia si riconferma come lo sport più seguito. 

Con l’evoluzione del mondo digitale e la diffusione dei social media, sia squadre che calciatori hanno una pagina e un profilo sui vari canali (Facebook, Instagram, Twitter e Youtube). Partendo dal presupposto che i vari account calcistici hanno un valore economico, è sorta l’esigenza di analizzarli più nel dettaglio. Questo è stato l’input che ha portato alla nascita di Social Media Soccer, startup innovativa e tecnologica e testata giornalistica, fatta di rubriche, news, interviste.

Si tratta di un progetto sviluppato da Go Project per il monitoraggio dei profili social dei protagonisti del mondo del calcio. Il risultato dato dal numero di fan, post e interazioni in generale permette di individuare il grado di autorevolezza del profilo social (chiamato Social Media Value).

Ma non è finita qui. Perché sulla base della fan base e di altre variabili è possibile:

  • misurare la visibilità della squadra e del calciatore sui social;
  • valutare quale squadra o calciatore è più adatto per veicolare determinati messaggi e promuovere alcuni prodotti/servizi.

Il personaggio calcistico diventa influencer.

Qual è il metodo di analisi seguito? 

La piattaforma acquisisce i dati dei social network, li aggrega e li analizza nel tempo.  Il valore aggiunto è dato dal fatto che Social Media Soccer è in possesso di uno storico di ben 2 anni, a partire dal 2016.

Ad oggi si contano 2.416.859.132 interazioni e il dato - fornito in tempo reale sul sito - è in continuo aggiornamento. Inoltre, è stata creata una dashboard che distingue per squadra, giocatore e social media di riferimento.

 

Gli indicatori che monitoriamo: il Social Media Value

Cos’è il Social Media Value? È un algoritmo sviluppato da ICTinnova Srl, spin off dell’Università La Sapienza di Roma, che analizza ben 230 metriche: dati quantitativi, come la fan base, e qualitativi, cioè riferibili al singolo giocatore.

Il risultato finale sarà un valore compreso tra 0 e 100, che farà da indice per capire l’esposizione mediatica di ciascun soggetto e il valore economico dell’account.

 

Social Media Soccer: quando i numeri contano 

A chi si rivolge? Social Media Soccer nasce per accompagnare tutti i protagonisti del settore calcistico nell’arco della loro carriera. Le sue metriche e i suoi target rispondono alle esigenze di squadre, allenatori, giocatori, sponsor tecnici, procuratori e agenzie.

A tal proposito, si assiste alla tendenza ad affidare la procura sportiva a vere e proprie agenzie, che si occupano anche della gestione del profilo personale o di squadra. In questo processo, i dati forniti da Social Media Soccer possono essere un ulteriore supporto durante le attività di gestione professionale degli account sui social network.

Dall’altro fronte, un tool di analisi come Social Media Soccer si allinea al lavoro di sponsor e aziende.

Infatti, un ruolo fondamentale è svolto dalla figura dello sponsor, a cui la piattaforma di Social Media Soccer può essere utile per scegliere quale squadra o calciatore promuovere.

Infine, chi più delle aziende può sfruttare il valore economico dei profili dei calciatori per individuare l’influencer migliore su cui investire per aumentare vendite e fatturato? Social Media Soccer funge da interlocutore, suggerendo quale personaggio del mondo del calcio è più adatto al target e al tipo di business verso cui l’azienda vuole puntare.

Infine, può rivelarsi un alleato per i giornalisti del settore. Con i dati forniti da Social Media Soccer possono approfondire le tematiche legate al rapporto tra il mondo del calcio e i social.